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Arte e scienza con un pizzico di malizia. A proposito di
La luna nel pozzo di Paolo Monti

 

di Enrico Castelli Gattinara
Docente di Epistemologia della Storia, Sapienza Università di Roma, Circolo Bateson.

PAOLO MONTI, LIFT-OFF, 2011Arte e scienza: di solito è un dialogo fra sordi. L’artista usa a modo suo pezzi di scienza che lo affascinano o gli sono congeniali, gli scienziati si occupano di arte – quando se ne occupano – a tempo perso e certamente fuori del loro ambito specifico di lavoro. Kuhn avrebbe chiamato incommensurabili i rispettivi sistemi di pensiero e di riferimento paradigmatico, e certamente le loro rispettive “pratiche” di lavoro.

Cosa c’è di più diverso del lavoro dell’artista (creativo) e dello scienziato (sistematico e metodico)? Lo scienziato non può usare le cose come gli pare, ma deve obbedire a dei protocolli procedurali molto rigidi: ha pochissimo spazio per la creatività, la fantasia e persino per la curiosità. Ha pochi soldi da buttare via, o da inutilizzare in un’opera d’arte (come per es. ha non-fatto Paolo Monti con Denaro contante del 1991: parallelepipedo di banconote con guardie armate in un’esposizione… mai realizzato). Il suo lavoro – in laboratorio, per esempio – è spesso ripetitivo, iperorganizzato e rigido. L’artista invece può fare come gli pare, può trarre ispirazione da qualsiasi cosa, può permettersi di scegliere il metodo e gli oggetti che più lo sollecitano (lo scienziato non ha questa libertà di scelta: la sua facoltà di scegliere si esprime solo agli inizi, quando comincia una ricerca, poi le cose devono seguire vie già preordinate e gli sviluppi devono essere prevedibili). Può certamente lavorare con rigore, può usare metodo scientifico, può studiare matematica e elaborare strutture frattali, come Paolo Monti ha fatto e sta facendo… ma il suo lavoro non è vincolato in partenza, e i suoi vincoli devono sempre poter essere spezzati e spiazzati (qui potremmo dire “spozzati”).

La differenza fra l’arte e la scienza è proprio questa: la libertà di contro alla legge.
Che bello, sarebbe, se fosse tutto così chiaro e netto: senza legge non si vive, e nessuno di noi lo vorrebbe (infatti ci arrabbiamo se qualcuno ci sfila il portafogli in autobus, o se il commerciante non ci dà il resto giusto, se qualcuno ci passa avanti in una fila, ecc.).
La legge dà certezza e sicurezza. Permette l’accordo.

Eppure nessuno di noi rinuncerebbe mai alla libertà, condizione essenziale per vivere felici. A questo proposito i filosofi già dal XVII secolo discutevano sui limiti fra la libertà individuale e la legge sociale, e sono nate quelle bellissime frasi che recitano “la mia libertà finisce dove comincia la tua”, che cercano cioè un’armonia fra il senso di libertà ritenuto innato nell’essere umano (il che invece è da dimostrare, ed è fortemente connotato culturalmente) e la necessità della legge, perché l’accordo di tutti con tutti non si trasformi nella guerra di tutti contro tutti (Hobbes).

Ma qui siamo già fuori dall’arte e dalla scienza: come vedete, il discorso porta verso altri orizzonti, crea nuove connessioni, nuovi sviluppi, nuovi problemi. Diventa politico ed ecologio, etico e morale… Non è possibile confrontarsi con l’opera di Monti senza aprirsi a questo infinito delle connessioni possibili, poiché le cose che siamo e che lavoriamo non sono mai del tutto isolate dal resto: tutto sta nel trovare-tracciare i percorsi giusti per passare da un piano all’altro del discorso e del fare, del pensare e del vivere.

Se il rapporto fra arte e scienza si limita a una coabitazione, a un compiacimento reciproco (gli scienziati ammirano l’arte, la ospitano, magari a tempo perso la studiano o la praticano; gli artisti invece la usano, la prendono, la buttano via ma non si sottomettono alla sua disciplina), il problema arte/scienza resta banale e già risolto da sempre (o quasi): Leonardo, Boccioni, Mondrian, Kandinski, Sergio Lombardo, ecc. Resta la differenza, ma non la compenetrazione e l’organizzazione reciproca.

E invece già da Galielo sappiamo che le cose stanno in modo assai diverso, perché arte e scienza vanno di pari passo non come due entità separate, ma come una stessa entità, e necessitano l’una dell’altra: cosa sarebbe la scienza senza creatività? E cosa l’arte senza metodo? Ma le cose sono assai più raffinate, oggi. Perché non è questo ancora il problema. Il problema è quello di suscitare inquietudini e interrogativi. E questo lo fanno sia l’arte che la scienza (in modi diversi, ovviamente): rompere le regole per trovarne altre, infrangere la legge in nome della legge (gli scienziati sono in fondo persone per bene, che provano un grande gusto nel fare proprio questo, e perciò sono stati talvolta malvisti dal Potere), limitare la libertà in nome della libertà. Usare il denaro per provocare il denaro e mostrarne non l’aspetto di feticcio, ma l’aspetto di merce. Il suo corpo, la sua consistenza. Senza per questo eliminare o escludere il suo aspetto feticcio. Il lavoro di Monti sul denaro è un lavoro scientifico assai più che artistico.

Occorre guardare alle cose con maggiore attenzione. Come al solito. Come per tutto.
E superare le apparenze.

Da quando l’arte è arte, cerca di superare le apparenze e la superficie, ma lo fa senza per questo eliminarla o dimenticarla (come invece ha fatto spesso la filosofia). Parafrasando Nietzsche, si può dire che l’arte è superficiale per profondità. Pensate a Caravaggio, alla sua rivoluzione dell’uso della luce e all’irruzione della corporeità quotidiana nello spazio sacro della rappresentazione. Il piede sporco di uno dei carnefici di san Pietro, i tratti da popolana di una madonna, le unghie sporche, il ghigno, l’ironia, l’assurdità che si ritrovano anche nei fiamminghi sono i caratteri di una realtà banale, normale, apparente, che invece di fare da schermo ci deve introdurre verso ciò che è più difficile da pensare e da capire. E’ l’idea dell’incredibile che è dentro il credibile. Non il credibile che diventa incredibile, ma l’incredibile del credibile. L’ironia di Arcimboldo insegna questo. Patate, carciofi, carote, pere, mele, uva… dopotutto, la pop art ha inventato ben poco, verrebbe quasi da dire: la superficie del mondo, la sua materia, è ciò che resta più misterioso ai nostri occhi (anche agli occhi della mente). Questo il messaggio dell’arte. Non “spingersi oltre”, ma imparare a stare meglio dentro ciò che per questa diversa prospettiva si rivela assai più ricco di quanto si pensava.

Ecco allora che si può aprire una nuova strada per affrontare sempre gli stessi problemi (quelli di capire e comprendere ciò che siamo e ciò in cui e con cui siamo, il mondo che ci circonda e di cui siamo fatti): l’artista Paolo Monti che si fissa su quello che usiamo forse più di ogni altra cosa nella nostra vita di tutti i giorni, il denaro, e vuole ricomprenderne la materialità. Una materialità che per definizione si è persa nell’esclusività del valore nominale.

Il valore del denaro è una cosa talmente banale che neppure ci sorprende, anche se fluttua in maniera così instabile che è una meraviglia della complessità. Ma tutti pensano al denaro come a un valore preciso di scambio definito da norme monetarie ed economiche nazionali e internazionali di cui pochi conoscono i meccanismi ma di cui tutti accettano volenti o nolenti i risultati. Ed è un materiale che circola, viaggia: freneticamente.

Monti ha deciso di prendere il denaro sul serio, in particolare nella sua forma materiale più materialmente volatile, la carta moneta. E per questo ha scelto il denaro per eccellenza della modernità, il dollaro, il biglietto da un dollaro. E su di lui ha operato dissacrandone il valore nominale, studiandone la composizione fisico-chimica, provocandone le reazioni e alla fine – è l’opera in corso che è TazebAu – sostituendo il valore proprio (one dollar) con un insieme di valori altri che vi si intrecciano sopra (firme, tempo, percorso, altre circolazioni).

La firma: ecco una connessione inaudita e incredibile. Personalizzare l’impersonalizzabile. Il denaro non appartiene a nessuno, perché rappresenta lo scambio perfettamente equivalente: tutti i biglietti di banca dello stesso valore nominale si equivalgono, a milioni. La firma è invece il marchio dell’individuo persona, il sigillo, the great seal, insostituibile e non falsificabile (per legge!). Ma Monti non ha voluto fare quello che tanto diverte gli adolescenti di 14 o 15 anni: marcare un biglietto da un dollaro con un piccolo segno, una frase d’amore, un insulto, ecc. che poi circoleranno chissà dove, e magari torneranno per un momento fra le mani di chi ha scritto (è quello che in fondo si spera). Monti ha semicancellato il sigillo ufficiale, o lo ha alterato, per metterlo in tensione con la firma in un viaggio che rappresenta la circolazione di altre cose, e soprattutto di altri valori. Perché in questo suo lavoro – ed è questa la sua inaudita intelligenza e la sua scientificità – il denaro non viene negato in quanto denaro, in quanto simbolo che ha senso in quanto portatore di un determinato valore rappresentato. Non si tratta di eliminare o distruggere il denaro, ma di affidargli altri valori… e magari continuare a farlo circolare, viaggiare.

Far entrare il mondo nel dollaro, e non più fare come si è sempre fatto, vale a dire far entrare il dollaro nel mondo. La globalizzazione la viviamo tutti i giorni. Paolo Monti la fa al rovescio (ma non al contrario): non priva il dollaro del suo valore (perché quello resta pur sempre un dollaro), ma ne mostra tutti i valori aggiuntivi virtuali che lo possono sottrarre – e di fatto lo sottraggono – all’esclusività del suo destino monetario.

Mi chiedo: cosa c’entra tutto questo con un laboratorio di ingegneria aerospaziale, che di dollari ne vorrebbe molti per portare avanti le proprie ricerche, ma li vorrebbe “veri” e pieni di valore monetario? Che tipo di connessione si è stabilita con Paolo Monti?

Per un verso è facile capire: l’artista viene qui per rompere un po’ le scatole, per provocare, per continuare il suo lavoro di cercare nelle superfici del mondo ciò che queste superfici rivelano di inesauribile e di incredibile. L’artista è sempre affascinato dalla scienza, e la usa. Chiama un pezzo (una connessione) della sua opera “Il satellite nel pozzo”, sfrutta il lavoro degli ingegneri per le sue proiezioni, li spinge a lavorare con lui e per lui, sfrutta i loro spazi… e si usa nel tempo (nel senso che usa e si lascia usare dal tempo che passa, modificando continuamente la sua opera, come il tempo sempre già fa inevitabilmente con tutto).

Per un altro verso invece le cose sono assai più complicate: perché gli ingegneri hanno accettato quest’opera? Cosa vogliono dall’artista? In che modo lo stanno usando e come ne stanno sfruttando le capacità? In che senso e in che misura hanno compreso l’affinità fra il loro e il lavoro dell’artista? Cosa ci stanno dicendo, senza dircelo apertamente?

Paolo Monti, TazebaAu s'pace 2007 / Transito del satellite UniSat 3
Guardiamo allora all’oggetto principale dell’evento, il satellite: il pozzo sta là da secoli a mostrare, senza dirlo a nessuno ma facendolo vedere a tutti, che la superficie è sempre bucata e dotata di profondità da indagare, e il satellite si specchia in questa profondità quasi per dire (questo il discorso tacito degli ingegneri, non dell’artista) che un satellite non è solo un corpo morto, ma va compreso nella sua materialità. Una materialità che fa giocare in s?materie molto diverse fra loro, se ammettiamo che siano materia sia l’alluminio che il tracciato di una curva sullo schermo di un computer. E infatti questo satellite, unisat, che gira velocissimo in meno di due ore intorno al mondo, serve a misurare se stesso, la materia (o meglio le materie diverse) di cui è fatto. Un satellite inutile, insomma. Un giocattolo. Di nessuna utilità quotidiana. Non è di quelli che servono per le nostre telecomunicazioni, per i gps, per i telescopi, per le rilevazioni spaziali, per google, per i militari, ecc. Tutte queste funzioni vengono operativamente inutilizzate. Il che significa soprattutto (perché non c’è niente di male nell’inutilità, visto che è qualcosa di sempre parziale e circostanziato, e quindi l’inutile è tale sempre e solo rispetto a certi scopi, a non ad altri) che inutilizza il suo valore commerciale immediatamente spendibile e monetizzabile. Serve infatti agli ingegneri per due cose che sono terra terra, nel vero senso della parola. Servono a permettere agli studenti, sulla Terra, qui ed ora, di costruire un satellite vero e proprio, che va veramente nello spazio, e serve soprattutto – ecco dove sta il trucco che accomuna questi ingegneri all’artista – a capire come reagiscono nello spazio i materiali terrestri con cui è costruito e funziona. Materiali terrestri, poveri, di tutti i giorni (le batterie, per esempio, o il tessuto per gli aquiloni), del tutto superficiali. Questi ingegneri, che in tal senso sono anche scienziati ma non per questo rinunciano al loro essere ingegneri (materiali, appunto), hanno in un certo senso “slavato” il satellite da tutti i suoi usi più prevedibili (e soggetti a lauti finanzamenti). A me pare: un po’ come i dollari di Monti. Questo satellite non serve a niente, se non a se stesso; è un satellite introverso e non estroverso, narcisistico. E per questo non può non affascinare chi non si limita a considerarlo semplicemente nella sua superficialità. Certo, se le misurazioni sono interessanti e i materiali reagiscono bene nello spazio, le ricadute economiche possono essere adottate dalle industrie, qualcuno può farci bei profitti, qualcun altro può ricavarci una bella pubblicazione sulle riviste più importanti del settore, ecc. Ma al satellite non gliene importa nulla, di tutto questo. Il suo valore è un non valore, un valore autoreferenziale: per questo “inutile”.

Ho suggerito che è questo un po’ anche il lavoro che P. Monti ha fatto sul denaro. L’ha slavato. Ne ha grattato via tutta la nobile monetarietà simbolica. Addirittura ne ha alterato il sigillo simbolico per eccellenza, l’aquila, che è sugli stemmi delle divise spaziali degli astronauti, oltre che sui dollari e sui timbri dei documenti ufficiali.

Ma c’è dell’altro: il satellite gira intorno al mondo – il suo riflesso sonoro nel pozzo lo testimonia – e i suoi “proprietari” lo tengono costantemente d’occhio in questa sua circolazione, come le banche tengono d’occhio la circolazione del denaro. Ma un satellite inutile che circola in questo modo assomiglia al viaggio dei dollari resi inutili dall’artista: portano entrambi con sè una materialità che infrange e dissolve – slava – l’investimento valoriale che li origina, circolano per altre strade, che pur essendo le stesse di fatto non lo sono, e mostrano in questo modo che nella superficie c’è un’alterità che non è facile cogliere, ma che occorre farlo se vogliamo imparare a vedere le cose altrimenti. Caricare un satellite spaziale con sei semplici pile torcia che si comprano dal tabaccaio significa caricarlo di una fonte di energia povera e ricca di significato, analogamente alle banconote grattate e trattate che circolano fra l’Italia e la Cina e che vengono caricate di firme e sigilli, a testimoniare che l’umano non muore necessariamente di fronte all’ineluttabile della tecnica e del mercato globale.

Discorsi pericolosi, che è difficile fare, ma che le cose trattate e slavate in questo modo sono capaci di comunicare. Provocare le cose a reagire, e insegnare alle cose e a noi tutti – agli studenti in primo luogo, ma qui lo diventiamo nel momento in cui, come sempre, ci disponiamo a imparare qualcosa che non sappiamo, e ci mettiamo alla ricerca, aprendoci allo stupore e allo studio, che non a caso hanno una stessa radice fonetica - insegnare che il mondo è pieno di pozzi in cui si specchiano i satelliti, ossia che è pieno di strade e percorsi inattesi che ci possono portare oltre le apparenze e far risuonare fra loro cose anche molto lontane fra loro. Ecco perché qui, oggi, arte e scienza hanno potuto incontrarsi e parlarsi in maniera originale.

Roma, dicembre 2007

Enrico Castelli Gattinara - Docente di Epistemologia della Storia, Sapienza Università di Roma, Circolo Bateson.

RASSEGNA VIDEO: "Il passaggio del satellite UNISAT3 su Roma"
durante il workshop TazebAu space, 2007 di Paolo Monti,
Scuola di Ingegneria Aerospaziale Università degli Studi di Roma.

 

 

testi selezionati
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Testi critici sulla trattazione del denaro nell'opera di Paolo Monti


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MUSIS Paolo Monti e TazebAu

TazebAu al Circolo Bateson

in moto da Venezia a Pechino, 2005

TazebAu messaggero di pace

un filo per. . .

TazebAu moneta relazionale

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Ascolta l'audio del intervento di Enrico Castelli Gattinara all'convegno
Infra-TazebAu s'pace 2011, Paolo Monti + Gauss - “Partenza bruciante. L'arte infravista dall'alto”.


Arte e scienza… con un pizzico di malizia. A proposito di “La luna nel pozzo” di Paolo Monti è tratto dalla raccolta di testi prodotti per il workshop “TazebAu s’pace 2007” tenutosi alla Scuola di Ingegneria Aerospaziale, San Pietro in Vincoli, Sapienza Università di Roma.

Pubblicato nella raccolta di testi prodotti per il catalogo della mostra di Paolo MontiTassonomie Spaziali” inaugurata il 28 marzo 2015 al Pied à Terre 37788.

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